[…] Facevano parte della comitiva una variegata e variopinta umanità di maschi, vicini di caseggiato e cugini che abitavano nella zona. Ciascuno con un nomignolo il più infamante possibile, che ne sottolineava delle caratteristiche evidenti o più segrete. Tu eri Bellicapelli, a causa di una massa a fungo insieme al maledetto taglio a caschetto che tua madre aveva deciso per conto tuo, incurante dei commenti degli altri pischelli: “Pare che t’hanno messo un vasetto in testa e poi te c’hanno tarato i capelli torno torno...” C’era di peggio: Andrea aveva un ventaglio di soprannomi, ma il principale era “er Banana”, che faceva riferimento sia alla sua altezza, che alla scarsa fattura dei suoi tiri. Lui però, furbo, era l’unico che veniva in strada vestito di tutto punto da portiere. Anzi no, veniva vestito da francotancredi, come diceva lui, e fargli gol era un balsamo. Poi c’era Muco, uno scricciolo di ragazzino che girava pure in estate con un fazzoletto di stoffa pieno di moccio. Francesco era Fischio, perché quando arrivava da dietro per marcarti durante una partita, lo avvertivi dal respiro asmatico sibilante. Caccola era sempre còlto con le mani in esplorazioni olfattive. Matteo era Caracca, perché aveva un tiro micidiale. E poi c’era Muro, un bestione bravissimo in difesa, così bravo da arrivare a giocare in serie C con la Lodigiani.
Fioccava anche una serie di nomignoli che non hai mai capito a cosa fossero dovuti, né hai mai osato chiedere: Alboino, Gilberto, Papero, Boccia, Sparecchio, Zio, Perlana, Foglia morta e Pianta. I capi della comitiva erano i più grandi e a parte questo li riconoscevi anche dal modo rispettoso in cui venivano chiamati: col loro vero nome, come nel caso di Rocco. O con variazioni leggere, com’era per Romoletto. Con nomignoli che mettevano in luce una qualità invidiata da tutto il gruppo, come per Caracca. A ricordarli oggi, riesci ad associare a ogni soprannome un volto, ma si tratta quasi sempre di volti di bambini, dai sette ai quattordici anni. A parte il gruppo che poi ti sei ritrovato anche sui banchi di scuola delle medie e del liceo, gli altri, infatti, non li vedi da più di vent’anni. Ti capita di passeggiare per le strade del Prenestino e di avvertire una vaga familiarità con ceffi di coetanei alquanto minacciosi, che potrebbero essere quelli con cui hai condiviso i pomeriggi più lunghi della tua infanzia dietro a un pallone. Ma la grinta di quelle facce indurite dagli anni ti ha sempre trattenuto dall’indagare oltre.
Dopo aver sbrigato i compiti per il giorno dopo, oppure rinviandoli a momenti migliori, correvi fuori per giocare a calcio, mentre la mamma restava sull’uscio a urlare. Andavi sotto casa, salutavi il resto della pipinara che già trovavi a cavalcioni o in piedi sul muretto in cortile, e iniziava la caccia al pallone. Ne bastava uno qualsiasi, quando andava bene un Tango Dirceu, ma spesso vi accontentavate di un misero SuperTele. Il SuperTele aveva il pregio di regalare al tiro di chiunque le più imprevedibili traiettorie dovute alla resistenza dell’aria, ma tutti facevano finta che fossero dettate dalla sapienza del proprio piede, come neanche Zico. A quel punto, i più forti tra voi facevano a pari e dispari per formare le squadre. Cominciava allora uno dei riti più importanti, un momento archetipico, che avrebbe segnato il tuo ruolo nella società: la scelta dei compagni. I primi della selezione erano quelli ritenuti più bravi. Via via, a scalare, i due “capitani” si dividevano i bravini, le mezze seghe, le seghe e, a mo’ di zavorra obbligatoria, i negati, che in genere venivano destinati in porta. Il ruolo del portiere era il meno ambito, a parte Banana con la sua divisina da francotancredi del cazzo. In genere si faceva a turno: a ogni gol subìto un cambio. Stare tra i pali immaginari non era poi malissimo: dava modo di rifiatare anche se risultava noioso e aveva i suoi rischi. Quando la partita sbracava del tutto, si decideva la regola dei portieri volanti: ognuno degli estremi difensori poteva uscire dalla sua area e mettersi a giocare in altro ruolo, mentre qualunque compagno si ritrovasse in prossimità della propria rete poteva parare e prendere la palla con le mani. Una regola fatta apposta per scatenare infinite discussioni sull’estensione dell’area di rigore. Finita la conta e formate le due squadre (che non erano mai pari), la sfida cominciava. Il proprietario del pallone giocava sempre, anche se era “una pippa”, ossia il gradino sotto al negato.
La palla era sempre di una pippa.
L’introduzione di regole assolute durante lo svolgersi del gioco, a ripensarci oggi, era un gioco di autorità niente male. Non erano regole scritte, ma tramandate dalla tradizione orale, in un mantra indiscutibile: “Rigore su gol, è gol…”; “Ogni tre angoli, un rigore…”; “Ogni due traverse, un rigore…” Poco importa che, per dire, le traverse fossero invisibili, come il resto della porta. Non si potevano vedere e toccare, certo, ma senza dubbio esistevano in qualche dimensione della vostra fantasia, e finivano col produrre risultati nella realtà.
Un campo da calcio vero e proprio non esisteva mai, se non per delle epocali sfide tra comitive di quartieri confinanti, che organizzavate una volta o due all’anno. In tali occasioni, che davano materia di discussione per mesi e mesi sia prima che dopo il match, ci si spostava per mezza Roma alla ricerca di un campo più o meno regolamentare e alla nostra portata economica. In quelle partite si metteva in mezzo qualcuno a fare da arbitro, ma i guardalinee no, quelli no. Alla fine, la scelta cadeva sempre su due strutture. Una lontana, per le partite fuori casa: il “Cristo Re” di via Acherusio, nel cuore del ricco quartiere Trieste. […]
[Dal romanzo Anelli di fumo, pp. 162-4]