Nel libro di Carla, Valerio vive

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unnamed-6Nel salotto di casa nostra possono accadere ogni giorno mille situazioni diverse. Situazioni che, per convenienza, chiamiamo “domestiche” e ci conducono a pensare a piccoli e grandi fatti quotidiani, che parlano di famiglia, d’affetto, di piccole liti da niente, al limite di solitudine davanti alla tv. Il salotto della maggior parte delle case degli italiani, verso l’una, sa di odore di pranzo e sottofondo di telegiornale. Il 22 febbraio 1980, nel salotto di casa sua in Via Monte Bianco 114 a Roma, all’ora di pranzo il 19enne Valerio Verbano veniva ucciso a colpi di pistola col silenziatore, davanti agli occhi della madre e del padre, legati e immobilizzati. I tre giovani ragazzi che lo uccisero non sono stati mai trovati e non si sono mai consegnati. Esistono sospetti, vox populi, certo, ma giustizia non è stata mai fatta. L’omicidio di Valerio Verbano è uno dei tanti fatti di sangue degli Anni di Piombo rimasti impuniti. Una stanza buia che contribuisce alla mancanza, in Italia, di un percorso di riconciliazione nazionale simile a quello prodotto in Sud Africa, dove si è stabilito per i responsabili dei crimini dell’apartheid, per lo meno di barattare la verità per l’impunità.

Aprendo il memoriale scritto da Carla Verbano, la mamma di Valerio, con il collega Alessandro Capponi, Sia folgorante la fine (Rizzoli, 2010, 15 euro) a conferma che ciò che si assorbe da bambini rimane dentro di noi per sempre, mi sono tornate alla memoria le scritte sui muri della Roma dei primi anni Ottanta: i disperati, inutili “Valerio vive” e i minacciosi, crudeli “10-100-1000 Valerio Verbano“, ovvero i due diversi modi in cui alcuni compagni e alcuni camerati ricordavano quell’assassinio.

Sono molti i meriti di questo libro di Carla Verbano. Anzitutto la delicatezza del tono, scelta consapevole e generosa dell’autrice. Non credo, infatti, esista nulla di peggio che perdere un figlio perché qualcuno lo uccide di proposito, e davanti ai tuoi occhi, mentre tu non puoi reagire in nessun modo.

Nel momento in cui Carla decide di raccontare cosa accadde quel febbraio e di ricostruire il contesto della Roma dei primi anni Ottanta, sarebbe stato comprensibile incanalarsi in un tono di rancore, di tragedia, di desiderio di vendetta. L’autrice, invece, sceglie binari che lei chiama “marziani”: quelli della quotidianità, del dolore vissuto, accettato ed esposto come fosse un orologio al polso: dopo un po’ non ti accorgi più che c’è, eppure è lì e non lo togli nemmeno per andare a dormire. Accettazione, ma non rassegnazione: quella no, non c’è in queste pagine che si rivolgono in più punti al lettore con tono di confidenza intima per parlare in realtà agli assassini del figlio: “Via Monte Bianco 114, quarto piano, uscendo dall’ascensore a sinistra. Ma tanto la strada la conoscono. Qualcuno verrà, forse uno solo di quei tre, ma so che verrà. Sensazioni, certo. Gli devo dire una cosa, quando sarà.” (193).

Il resto della recensione sul sito del Fatto Quotidiano.

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