Terrorismo: ‘Colpo alla nuca’ di Lenci insegna ancora molto

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Colpcolpoo alla nuca è un titolo a effetto ma è anche ciò che letteralmente ricevette l’architetto Sergio Lenci quando fu assalito da un commando di Prima Linea all’interno del suo studio, il 2 maggio 1980: una pallottola sparata in testa, che non lo uccise ma non gli poté più essere tolta e ne segnò la vita in modo irreparabile. Colpo alla nuca è anche il titolo che Lenci diede al suo potente memoriale, pubblicato da Editori Riuniti nel 1988 e ristampato dalle Edizioni Il Mulino nel 2009. L’opera di Lenci è stata la prima del suo genere e ha ispirato anche un famoso film di Mimmo Calopresti, La seconda volta.

Analizzando i memoriali scritti da ex terroristi o dalle loro vittime, sappiamo che i primi hanno avuto una eco maggiore presso il pubblico italiano, almeno fino a pochi anni fa. Questo si spiega in parte col fatto che il racconto di un ex “cattivo” attira più la curiosità del lettore rispetto al racconto di una vittima. Ma è innegabile che rispetto alle vittime i terroristi hanno goduto di una maggiore attenzione mediatica e di un più forte potere di ascolto presso l’opinione pubblica e le stesse istituzioni italiane.

Il memoriale di Lenci, invece, è uno di quei testi che meriterebbe un ben maggiore successo di pubblico. L’autore cerca una risposta semplice ma impossibile da ottenere: perché fu scelto lui come bersaglio da colpire. Per questo, nel suo testo, il racconto dei fatti copre solo i primi due capitoli (pp. 25-42). Gli altri sette sono tutti tesi al ragionamento o, per dirla con Lenci, le “riflessioni e interrogativi che a me sono sembrati importanti” (p. 21).

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Anelli di fumo, la recensione de Il Fatto Quotidiano

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Andrea Pomella ha letto Anelli di fumo, e gli è piaciuto:

Confesso di provare una certa insofferenza per i romanzi che vengono definiti “generazionali”, ossia quei romanzi che tentano di restituire in un colpo solo i tratti e le manie di una categoria di persone unite da un comune dato statistico: l’età anagrafica. Sciltian Gastaldi ha da poco pubblicato un romanzo, Anelli di fumo (edito da Transeuropa), che inizia così: “La tua generazione è quella nata con due canali Rai. Quella cresciuta con i primi cartoni giapponesi trasmessi in Italia: Capitan Harlock, Goldrake, Heidi, Lady Oscar, Daitarn III e Candy Candy. Quella dei primi telefilm americani […]”.

Appena ho iniziato a leggerlo mi sono detto: “Ecco un romanzo generazionale”. Di più, mi sono detto: “Ecco un romanzo dichiaratamente generazionale”. E subito ho visto innalzarsi di fronte a me una parete pregiudiziale all’apparenza insormontabile. Il romanzo di Gastaldi, in effetti, è innegabilmente il ritratto di una generazione, una polifonia di voci che racconta le vicende di un gruppo di quasi quarantenni alle prese con una società in crisi di valori (un’altra idiosincrasia che ho è per l’espressione “crisi di valori”) e con strategie per colloqui di lavoro, aperitivi, amori surrogati, tentazioni da cervelli in fuga. Insomma, tutto il corredo che riproduce il giovane emerito attuale che della gioventù conserva il grado e le prerogative pur non possedendone più i requisiti materiali. Eppure, nella scrittura di Gastaldi c’è qualcosa che di solito non c’è nei canonici romanzi generazionali, e lo spunto per definire questa cosa me lo ha dato lui stesso a pagina 63 del libro, quando scrive: “Mi rammento di come i disegnatori della serie Jenny la Tennista accennavano i visi dei personaggi di sfondo: una serie di maschere tutte uguali, fatte di due tratti al massimo”.

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Anelli di fumo, la recensione di Satisfiction

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Maria Caterina Prezioso ha letto per Satisfiction Anelli di fumo è le è piaciuto:

“Ciò che non siamo in grado di cambiare, dobbiamo almeno descriverlo” Rainer Werner Fassbinder questo è quello che ci suggerisce Gastaldi in apertura di Anelli di Fumo. Aggiungerei che abbiamo il dovere di descriverlo. E in questa ottica drammaturgica Sciltian Gastaldi ha colpito nel segno. Sapientemente e con leggerezza ci pone di fronte una storia asimmetrica. La storia di una generazione (quella dei trentacinquenni o su di lì) che hanno visto tutto e hanno assimilato poco  di quel tutto. Giacomo Leopardi che, grazie a Mario Martone con il film “il giovane favoloso”  oggi è tornato tanto di moda sussurrava “I fanciulli trovano il tutto nel nulla, gli adulti il nulla nel tutto”.
Questo romanzo racconta con apparente frivolezza la storia di un gruppo di ragazzi-adulti alla prese con il lavoro (che non c’è) con l’amore (che non arriva e quando arriva svanisce avvilito dall’incapacità di divenire un sentimento adulto) con le speranze (che muoiono dentro prima di nascere compiute). Questi ragazzi-adulti aspettano, ma aspettano cosa? Un riscatto, una promozione, un lavoro a tempo indeterminato, un figlio, un imperativo?! Ecco forse  aspettano un imperativo, qualcosa che li obblighi a dominare la propria esistenza e dare un taglio con qualcosa che si è disintegrato all’interno della struttura sociale italiana.

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Pride? Si può leggere online (e io sono la donzelletta che vien dalla campagna, lo so)

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Coverfebbraio15Va bene, io sono abbastanza famoso per essere tipicamente l’ultimo a sapere le dritte sghicie (appunto: la donzelletta che vien dalla campagna). In questo caso vi dirò qualcosa che probabilmente sapete già tutti, ma siccome non si può mai sapere, ve la dico uguale.

Qualche tempo fa l’ottimo Pasquale Quaranta su Repubblica aveva fatto un bell’articolo sulla resistenza in vita del mensile gayo Pride, ora diretto dal bravo Stefano Bolognini. Io avevo letto solo il titolo e mi era sfuggito l’articolo. Oggi però sono capitato sul sito di Pride e ho scoperto che la rivista si può scaricare e leggere gratuitamente dal comodo del vostro computer, o con quale altra diavoleria navigate sul web.

Quindi, miei cari anellidi, MAI PIU’ SENZA! Da quando non c’è più Aut, mi manca molto leggere una rivista di nicchia ben fatta e, a naso e dalle firme di alcuni colleghi che vedo presenti in questo numero, il Pride del sor Bolognini ha molto migliorato il suo livello medio rispetto al passato.

Ah, se siete imprenditori GLBT, siete pregati di farvi mandare anche il prezzario delle pubblicità, che senza pubblicità nessuna rivista può resistere. Capito?

Quello che non vi hanno mai insegnato al corso d’inglese: la e silente e il Great vowel shift

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Fabristol ci spiega la fondamentale regola della “e” silente per migliorare la nostra pronuncia inglese. Fabristol ha anche l’accortezza di ricordarci che le cose sono un po’ più complicate di come le presenta e che la pronuncia delle vocali è, in inglese, soggetta all’area geografica in cui si va. E infatti, in Scozia e nel Nord dell’Inghilterra mi è capitato di ascoltare madrelingua pronunciare la vocale “u” proprio all’italiana, ed ecco che parole come “bug” o “budget” qui i locali le pronunciano come si farebbe al Prenestino.

Fabristol

Per le puntate precedenti vedere qui.

2aa621544c31e1a395cfdf4be633132e3aa4eac19cdf5b286b99ad18aa5e538d2117599683Ammettetelo: quante volte avete detto o avete sentito dire che la pronuncia dell’inglese è inconsistente e che non esistano regole? Quante volte vi siete fermati davanti ad una parola e vi siete chiesti: “Come si pronuncia la vocale a in questa parola?”? E’ possibile, come nel mio caso, che lo abbiate chiesto anche a chi avrebbe dovuto aiutarvi, ovvero ad un insegnante d’inglese a scuola. Ma sono sicuro che nel 90% dei casi la risposta sia stata “spallucce”. La pronuncia dell’inglese non ha regole e dovete imparare le parole una per una, questo è il luogo comune.

E invece no, e oggi vi dimostrerò che esiste un modo per saper pronunciare le vocali dell’inglese di alcuni gruppi di parole senza averle dovute imparare a memoria. E questo l’ho imparato con la pratica… visto che nessuno si era mai premurato di insegnarmelo. Sappiamo bene che…

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