Atletico Minaccia Football Club: Marsullo tiene cazzimma

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atletico-minaccia-football-clubAtletico Minaccia Football Club (Einaudi, 2013, 17 euro, 212 pp.) è la geniale risposta italiana a Febbre a 90° di Nick Hornby. Il libro d’esordio di Marco Marsullo, classe 1985, è uno di quei romanzi umoristici assoluti che catturano sin dalla perfetta scelta del titolo. Titolo che, assieme ai nomi delle altre squadre di calcio presenti nel romanzo, meriterebbe un premio a parte, per la fantasia, l’inventiva e l’umorismo, qualità felicemente presenti dalla prima all’ultima pagina del volume.

Al centro di tutto c’è la voglia matta di calcio. Più che una passione, un amore che lega e, nei casi patologici, dà un senso alla vita di moltissimi popoli dell’orbe terracqueo, non a caso a forma di pallone. Attenzione però: se siete del tutto a digiuno di calci d’angolo e fuorigioco, potrete comunque godere molto leggendo Atletico Minaccia Football Club. Marsullo, infatti, decide di rappresentare questo amore di viscere per il calcio usando l’arma dell’ironia e dell’intelligenza, raccontando un mondo provinciale e obnubilato dalla calcio-dipendenza, corredandolo di tipi umani assolutamente realistici e molto, molto divertenti. Ci narra così le gesta di Vanni Cascione, allenatore quarantenne della provincia campana che ha una sola religione, il calcio appunto, e un unico dio: José Mourinho.

Parentesi per i miei lettori recentemente rapiti dai marziani: Mou è uno dei più prestigiosi commissari tecnici della storia del Calcio, in forza ora al Chelsea dopo tre anni al Real Madrid, ma passato per il campionato italiano come trainer dell’Inter. Ma al di là del curriculum di squadre stellari allenate da questo Ct portoghese, Mourinho grazie alla sua cultura, alla sua superbia e al suo caratterino ha saputo diventare per milioni di persone un essere ontologico, un modello di vita prima ancora che un simbolo professionale.

Vanni Cascione, il protagonista del romanzo, è appunto uno di questi uomini completamente rapiti dal Mourinho-pensiero e dalle sue gesta, che tenta disperatamente di interpretare o addirittura di superare. E finalmente, dopo una valanga di esoneri dalle panchine più scalcagnate dei gironi d’Eccellenza campana, a Cascione si prospetta l’opportunità di una vita: allenare da inizio campionato l’Atletico Minaccia, il cui nome riflette alla perfezione la banda di cocainomani, figli di, clandestini, cuochi, meccanici, ex concorrenti di Sarabanda e altri improbabili calciatori racimolati dal direttore sportivo Lucio Magia, nome omen.

Con questa banda di brocchi in salsa campana, vincere il torneo sembra cosa impossibile. Eppure Vanni Cascione, vero Candido postmoderno, aiutato dalla sua acutissima figlia Chiara-Pangloss, riesce a creare uno spirito di squadra, riesce ad amalgamare questo manipolo di dopolavoristi e riesce a farli diventare una squadra di calcio.

Al di là dell’originalità della trama, che interpreta e attualizza in chiave letteraria l’ispirazione dal cult-movie degli anni Ottanta L’allenatore nel pallone, di Sergio Martino, quello che convince di questo romanzo è che Marsullo è una penna dal talento oggettivo: nessuno dei suoi personaggi, nemmeno quelli minori, è una macchietta. E’ chiaro che l’autore vuole bene ai suoi personaggi e che si è divertito un mondo a crearli, riuscendo nella cosa più difficile per uno scrittore umoristico: trasmettere questo divertimento al lettore. Atletico Minaccia Football Club non è però “soltanto” un romanzo che fa divertire. Ha una sua cifra socio-culturale di tutto rispetto che passa dallo sdoganamento di un linguaggio a metà fra il dialettale e il gergale, con l’inserimento in modo naturale nel racconto di una serie di termini presi in prestito dal campano, dal barese e dal gergo calcistico, a cui si somma una sottile e divertita analisi sociologica sugli stereotipi antropologici del Sud Italia, liberati dalla retorica del lamento consolatorio.

Detto usando il linguaggio di Marsullo: questo scrittore tiene una cazzimma con la penna in mano di cui sentiremo senza dubbio parlare in futuro.

Già pubblicato su Il Fatto Quotidiano.

Gli amici del deserto, una recensione

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C’è tanta letteratura americana nell’ultimo romanzo di Marco Mancassola, Gli amici del deserto (Feltrinelli, 2013, 14 euro, 147 pp.) e tanta letteratura psichedelica e di viaggio. Il Kerouac di On the Road, naturalmente, ma soprattutto di Big Sur, che sono anche i titoli dei primi due capitoli di questo libro, ma anche autori meno noti, dal Kim Nunn di Surf City, all’Antonin Artaud de Les Tarahumaras e perfino una rivisitazione in chiave di ben più profonda qualità letteraria e introspezione psicologica del primo e miglior romanzo di Andrea De Carlo, Treno di panna.

Il mito del viaggio e della frontiera, assieme con i labirinti della psiche umana, sono i motori di questo romanzo breve. La frontiera è quella classica: il Big Sur, quella porzione frastagliata della costa californiana che ha ispirato alcune delle penne e dei registi più nomadi della letteratura e del cinema a stelle e strisce e non solo. Lì, fra Monterey e la contea di San Luis Obispo, dove la strada costeggia l’oceano, con i tornanti che regalano panorami da dipingere a ogni curva. Mancassola fa partire da questo sperone occidentale, già di per sé meta di viaggio per noi italiani, un itinerario nell’itinerario, e la cosa vale sia in senso figurato che letterale: attraverso il deserto californiano fino all’Arizona, alla ricerca di Anselmo, guaritore sciamanico. Ma naturalmente anche alla ricerca del sé perduto, del proprio senso, di una pace interiore che sembra ormai andata via per sempre.

Schema classico: un protagonista e un deuteragonista, più alcune valide figure di sfondo. Del protagonista conosciamo solo l’età, 33 anni, ma non ne sappiamo nemmeno il nome, quasi a confermare una sua disperata ricerca di anonimato e di pausa filosofica di riflessione. Lui, che è anche il narratore in prima persona del romanzo, si è rifugiato in un convento di monaci in California, cercando di dimenticare il fallimento della sua relazione con Kareen, 13 anni insieme, interrotti da una crisi mentale della donna che l’uomo non è stato in grado di gestire. ‟Qual è il tuo vero cruccio? Prova a dirmelo in una sola frase” chiede Brother Lucius al  narratore, che non ha difficoltà a rispondere sinceramente: Non sono riuscito ad amare una donna. Una donna che dopo la separazione dal nostro fragile eroe è invece riuscita a ricostruirsi un’esistenza, sposandosi e rimanendo incinta. Il senso di colpa per la propria incapacità e il sentimento dell’occasione perduta sono le zavorre emotive che àncorano il narratore nella sua stasi californiana.

Da questa stasi verrà a smuoverlo Danilo Scotti, il suo miglior amico, ma altra persona fragile se non fragilissima: commediante che non ha sfondato, è affetto da disturbo bipolare e dipende da vari psicofarmaci che hanno la proprietà di portare artificialmente il suo umore su e giù, come un bambino sull’ottovolante. Danilo vuole che il suo amico venga con sé a cercare nel deserto uno sciamano, o per meglio dire un guaritore naturale, di cui si sa solo che risponde al nome di Anselmo. E’ un’impresa da pazzi, per l’appunto, nella quale il narratore si fa coinvolgere a malincuore, se non altro per evitare un nuovo senso di colpa nei confronti di un’altra persona amata.

Mancassola ci propone dunque una trama alquanto banale: il viaggio alla ricerca di sé, l’avventura nel deserto che è metafora sin troppo telefonata, la scoperta che il traguardo del viaggio è, in realtà il viaggio stesso e tutte le persone che si incontrano intanto che si va. Lo scrittore non ci risparmia nemmeno – all’alba del 2013 – il viaggio a base di peyote nel bel mezzo del deserto, abusatissimo topos letterario della letteratura psichedelica, né l’epilogo parzialmente drammatico di cui non svelo i dettagli.

E tuttavia, anche di fronte a questa franca mancanza di originalità della trama, l’autore riesce col suo stile pulito e intenso a fare letteratura. Ecco che tutti i suoi personaggi, anche quelli minori, vibrano in poche righe. Il lettore li vede ed entra in empatia di vario grado con loro. In appena 147 pagine si fa in tempo ad affezionarsi a tutti i personaggi di Mancassola e si viene coinvolti nel loro improbabile viaggio, si parteggia, si percepiscono i dubbi del narratore, le paure del suo amico, il sentimento della perdita per ciò che non è potuto essere e anche il sentimento della speranza per ciò che, forse, potrà essere ora.

Pubblicata anche su Il Fatto Quotidiano.

Luca Tarantelli e la forza della scrittura

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copj170.aspRigore scientifico. Ricerca storica. Passione. Armonia. Sentimento. Sono queste le folgoranti qualità del saggio Il sogno che uccise mio padre. Storia di Ezio Tarantelli che voleva lavoro per tutti (Rizzoli 2013, 18 euro, 274 pp.) scritto dal figlio Luca, a 28 anni di distanza dall’assassinio a opera delle Brigate Rosse nel parcheggio della Facoltà di Economia dell’Università “Sapienza” di Roma, il 27 marzo 1985.

Luca Tarantelli riesce nell’aspetto più difficile: unire il racconto storico a quello privato, ma senza uscire dai margini della ricostruzione scientifica. “Mio padre però non c’era più: era stato sostituito da una narrativa pubblica che lo presentava come un un eroe […] Così, nemmeno il dolore fu più mio: la sua morte era diventata una questione di Stato […] e questo mi espropriò della possibilità di elaborare il lutto. […] Quei diciassette proiettili conficcati nel suo torace rendevano la sua morte un evento intenzionale, un dolore provocato espressamente […] Non è la stessa cosa la perdita di un padre in un incidente, o per una malattia, piuttosto che per un omicidio.” L’autore, usando il portentoso strumento della scrittura e mettendo a frutto quelli che si percepiscono come anni di terapia dolce e intelligente, in queste pagine riesce finalmente a elaborare il lutto e a trovare la serenità di mettere insieme un testo che dovrebbe essere fatto leggere nelle scuole.

Tre anni di lavoro duro e doloroso, ma necessario per ricostruire anzitutto una cornice su almeno quattro livelli. Il primo livello è quello della cornice storica di un’Italia spaccata fra rossi e neri uniti solo dalla P38. Il secondo livello è quello della ricostruzione – in un linguaggio piano e umanistico – delle delle intuizioni economiche spesso geniali di Ezio Tarantelli. Il terzo livello è quello della cornice personale, ricavata dal figlio attraverso una attenta e ponderata selezione di interviste ad amici, colleghi, studenti e parenti di Ezio. Impressionante la lista di personalità oggi famose a livello internazionale che hanno avuto a che fare con l’economista romano: da Carlo Azeglio Ciampi, che cura un’affettousa prefazione, a Guido Carli, dal Nobel Franco Modigliani ad Aris Accornero, solo per citarne alcuni.

La quarta cornice è relativa alla dinamica dell’assassinio, che come mi ha confermato l’autore in un breve incontro romano “Non è e non vuole essere il centro della storia“. Luca me lo spiega con una metafora calcistica, e anche nella scelta di questo parallelo popolare viene fuori tutta la sua dolcezza e il suo desiderio di essere comprensibile a un pubblico il più vasto possibile: “E’ come se in una partita di calcio sul 4 a 3, a venti minuti dalla fine, entra un giocatore avversario che in tackle spezza le gambe a un giocatore della tua squadra. Lo racconti, certo, ma racconti anche ciò che è successo nei settanta minuti precedenti: quella è la partita.” Molto bello anche l’intreccio con quel po’ di autobiografia che Luca dischiude, fra macro e microstoria, mettendo in parallelo gli eventi della storia d’Italia con la sua esperienza di studente del liceo Tasso di Roma negli anni Novanta.

In questo saggio l’autore ci prende per mano e ci fa conoscere suo papà – chiamato così per la prima volta solo a pagina 236; prima si riferisce a lui come “Ezio”, “Tarantelli”, “l’economista romano”, e molto più raramente, “mio padre”. Ne vien fuori un uomo anzitutto sorridente, ottimista, brillantissimo studente e poi ricercatore di Econometria nelle due Cambridge, un marito innamorato della sua bella moglie, con un’automobile lurida e scassata, un papà amorevole, che sgonfia gradualmente i braccioli del figlio piccolo per insegnargli a nuotare senza dargli l’ansia del fatto che si compie. Luca, di questo papà così bello, non ne fa però un’apologia. Tratteggia in modo netto i difetti dell’uomo pubblico: un impolitico, anche molto ingenuo, sicuro di doversi esporre sulla stampa, in tempi politici che puzzavano di polvere da sparo, perché “la gente ha bisogno di capire“.

Ezio vedrà invece le sue idee distorte e usate da una classe politica (soprattutto del Pci, il partito che pure Tarantelli votava) e sindacale (la Cgil) non in grado o addirittura nolente di seguire le sue intenzioni. Il suo “sogno”, che gli causerà quelle 17 pallottole in petto, rimane tale: irrealizato, distorto. Ezio, come spiega Accornero, voleva “alleggerire il peso della scala mobile […] nella prospettiva però di restituire ai lavoratori quel che era stato loro levato, qualora non si registrasse un aumento dell’occupazione.” (182). Il punto centrale era che Tarantelli voleva legare gli scatti trimestrali della scala mobile non più ai dati del passato dell’inflazione, ma a quelli previsti per il futuro: un concetto che avrebbe messo nelle mani del sindacato la possibilità di determinare la politica economica dello Stato.

Col senno di poi sappiamo che Ezio Tarantelli aveva visto giusto. I problemi da lui indicati, e che voleva evitare, si sono puntualmente verificati e poi accentuati, dal “salto generazionale” al problema dei salari. Uno dei tanti treni persi dal sistema Italia. Nel sangue.

Uscito anche su Il Fatto Quotidiano.