Governo: il problema dei froci

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Il cartello recita: "Potrete pure avermi spogliato dei miei diriti, ma comunque trovo sempre più fica io di voi".

Uso il termine “froci” al posto del più politicamente corretto “gay”  perché quando si parla della situazione dei gay in Italia, è chiaro che per il Parlamento italiano e la sua classe dirigente si tratta solo di froci, busoni, culattoni, ricchioni, bucaioli o cupii  privi di ogni diritto civile, a seconda della regione di provenienza del cosiddetto “onorevole”.

Ecco perché quando questo Parlamento di gente per lo più segregazionista e reazionaria, mai eletta dal popolo, è chiamato ad applicare concetti banali per il resto dell’Occidente (tipo: il diritto al matrimonio per tutti, a prescindere dal colore della pelle o dall’orientamento sessuale degli sposi), fa sempre la cosa più incivile possibile, e se ne vanta pure.

Così, mentre il New York Times di una settimana fa dedicava 22 pagine di inserto Sunday Styles sui primi matrimoni fra coppie dello stesso sesso che si sono officiati in tutto lo Stato, dando consigli di etichetta, pubblicando i tradizionali “vows” (le promesse matrimoniali, una rubrica antica del NYT finalmente aperta alle coppie dello stesso sesso, con tanto di foto in primo piano dei promessi sposi) e facendo considerazioni sull’indotto economico che l’estensione del diritto al matrimonio comporta, in Italia abbiamo registrato non solo l’ennesimo fallimento dell’aggravante contro i crimini omofobici, ma anche le dichiarazioni violente e omofobiche di due fini menti del governo Berlusconi.

Il ministro per le Politiche Agricole, Saverio Romano ha sentenziato: “I gay sono uno scandalo. I matrimoni a New York mi fanno rabbrividire. Ho dovuto cambiare canale quando ne parlavano in tv, non so come spiegarlo alla mia bambina.

Il mio consiglio: non so, ministro Romano, provi a spiegare alla sua bambina perchè lei è indagato per mafia, invece.

Il ministro per le Riforme, Umberto Bossi ha invece detto:  “Meno male, non è passata l’aggravante dell’omofobia. Tutti sperano di avere figli che stanno dalla parte giusta, questo è un augurio che facciamo a tutti, non era giusto aumentare le pene per quelli che si sentono anche un pò disturbati da certe manifestazioni, persone normali che a volte si lasciano scappare qualche parola in senso anche bonario.

Ora, io non so da dove ricavi l’illusione di essere una “persona normale” un signore che quando rilascia dichiarazioni alla stampa nazionale si esprime più con l’uso del dito medio fanculizzante che con delle parole, e che tutte le volte che è incontrato in pubblico dai suoi sodali di partito, gli viene offerto il palmo della mano aperta per testare le sue capacità a non mancarlo con un cazzotto [sic], segno indubbio di virile vitalità, presso ominidi e scimmie.

Tuttavia, siccome il ministro Bossi è convinto di essere “una persona normale” ed è ovvio che non si rende conto della violenza delle sue parole contro i recion, mi domando come reagirebbe se un cupio padano, magari adolescente e dunque irruento quanto il ministro, si “lasciasse scappare qualche parola” e gli augurasse qualcosa di ugualmente violento, tipo che gli prendesse l’altra metà del coccolone che ancora gli manca per fare bingo, perché magari quel busone si sente un po’ disturbato da certe sue manifestazioni. Naturalmente, il tutto in senso anche bonario. Ministro Bossi, chissà se sono riuscito a farmi intendere da lei. Certo, non potendole offrire il palmo della mano aperta, mi resterà il dubbio.

Se a questo aggiungete il modo in cui l’On. Anna Paola Concia ha commentato l’ambigua situazione affittuaria del ministro Tremonti, di cui siamo venuti a sapere di una convivenza con persona dello stesso sesso fino a oggi tenuta nascosta (“legga Alexis, di Marguerite Yourcenar, l’aiuterà e chissà che non riesca a spiegarsi meglio” ha suggerito la Concia; l’Alexis è la storia di un uomo che lascia la moglie scoprendosi gay) e i conseguenti dubbi affiorati dalla rete sull’orientamento sessuale di Tremonti, indubbiamente per il Governo i froci sono solo un problema, e il Governo è il primo problema dei froci. Il titolo è perfetto anche nella sua doppia possibile lettura.

Breivik e gli ideologi dell’Eurabia

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Cos’è un babau? Secondo l’Hoepli, “Mostro immaginario che gli adulti nominano per far paura ai bambini e tenerli buoni“. Ora, per carità: il terrorismo islamico non è affatto immaginario, purtroppo.

Quando però si fa quel che ha fatto Fiamma Nirenstein nel suo articolo apparso su Il Giornale del 23 luglio scorso, si può parlare proprio di uso del babau. La Nirenstein, per scrivere il suo pezzo, ha dovuto compiere due sostituzioni concettuali: anzitutto è passata dall’idea di “terrorismo islamico” a quella di “islamismo”, accomunando dunque l’intero mondo islamico con le sue frange terroriste. Poi, non appena accaduta la strage di Oslo e Utoya ha deciso che, date le caratteristiche dell’orrore, la colpa era “dell’islamismo“. Un doppio errore concettuale commesso da un alto numero di editorialisti in tutto l’Occidente, dal Wall Street Journal a Fox News, ma questo semmai preoccupa di più.

In modo assai istruttivo, Fiamma Nirenstein ha scritto: “Ciò che importa è che la guerra dell’islami­smo contro la nostra civiltà, se verrà confer­mata l’ipotesi che nel corso della giornata è diventata sempre più robusta, è feroce e ag­gressiva. Mentre da parte nostra diventa sempre più grande la difficoltà ad accettare che una vasta fetta della popolazione mondiale possa non volerci bene, e non per ragio­ni sociali o economiche, ma per ragioni di ideologia, […]”. Volevo appunto arrivare al concetto di “ideologia” perché non è sbagliato, solo che l’ideologia che ha mosso la mano del boia Breivik è il cristiano-sionismo, e non l’islamismo.

Quando, nel mio precedente articolo, ho parlato di “mandanti morali” che si ritrovano sfogliando le 1500 pagine del manifesto del boia di Utoya, Anders Breivik, quasi tutti i commentatori hanno compreso cosa volevo intendere. Non ho mai accennato a una corresponsabilità penale dei blogger e dei pensatori (fra loro, anche Oriana Fallaci, che appare 8 volte) citati a più riprese dal camerata Breivik a giustificare il suo credo, le sue convinzioni e le sue azioni. Viviamo in una democrazia dove esiste un principio, quello della libertà d’espressione, che non si discute. E che però non include – va detto per i più sprovveduti  – il diritto a sostenere l’odio verso un determinato gruppo di persone: quando la libertà d’espressione sfocia nell’apologia di reato o nei rilievi della Legge Mancino contro i crimini dell’odio etnico-religioso, si commette appunto un reato. In tutto l’Occidente è così, con l’aggiunta che nei crimini dell’odio sono inclusi anche quelli contro le minoranze sessuali.

I pensatori citati nel manifesto sono però responsabili da un punto di vista morale, e di questo rispondono alle proprie coscienze: quegli autori hanno, infatti, contribuito a creare un’ideologia. Si tratta di un’ideologia fondamentalista cristiano-sionista, più che cristiano-nazista come ha scritto Carlo Bonini su Repubblica affidandosi allo studioso Ugo Maria Tassinari. E’ un’ideologia che si basa sul concetto di “Eurabia“, creato nell’accezione usata da Breivik dalla scrittrice Gisele Littman, che con lo pseudonimo di Bat Ye’Or ha scritto vari saggi sul tema e ha riassunto il concetto così in un’intervista a Il Foglio: “Eurabia esiste, viviamo nell’Eurabia, non è il domani, ma oggi, qui. Eurabia rappresenta un’ideologia che, per raggiungere i suoi obiettivi, fa leva su numerosi strumenti strategici, politici e culturali. […] Eurabia è un’entità culturalmente ibrida, fondata sull’antioccidentalismo e sulla giudeofobia.” Un concetto che è stato usato alla grande da tutti i modelli di Breivik, a cominciare da Oriana Fallaci.

Se anche il manifesto di Breivik “2083: una dichiarazione d’indipendenza europea“, è un guazzabuglio di concetti diversi, spesso incoerenti e in contrasto fra loro, non credo si possa definire “nazista” uno che scrive chiaramente che avrebbe volentieri ucciso Adolf Hitler:

Se c’è una figura storica di duce germanico che odio è proprio Adolf Hitler. Se potessi viaggiare in una macchina del tempo e approdare a Berlino nel 1933, sarei la prima persona ad andare – ma con l’idea di ucciderlo. Perché? Nessuna persona ha mai commesso un crimine più orribile contro la sua tribù di quanto abbia fatto Hitler. A causa sua, le tribù germaniche stanno morendo e POTREBBERO essere completamente spazzate via se non riusciamo a vincere in 20-70 anni. Grazie alla sua campagna folle e il conseguente genocidio dei 6 milioni di ebrei, è sorto il multiculturalismo, l’ideologia dell’odio anti-europeo ideologia dell’odio. Il multiculturalismo non sarebbe mai stato implementato in Europa, se non fosse stato per le azioni sconsiderate e imperdonabili del NSDAP (il partito nazista, ndr). (pagina 1165)

Né credo che si possa definire “anti-semita” uno che dichiara di essere vicino al sionismo e che considera i sionisti come “fratelli”:

La maggioranza degli ebrei tedeschi o degli europei è stata sleale? Sì, almeno quando parliamo degli ebrei liberali, simili agli ebrei liberali di oggi, che si oppongono al nazionalismo sionista e sono per il multiculturalismo. Gli ebrei che sostengono il multiculturalismo sono  una minaccia per Israele e per il sionismo (il nazionalismo israeliano) quanto lo sono per noi. Cerchiamo quindi di combattere insieme con Israele, con i nostri fratelli sionisti, contro tutti gli anti-sionisti, contro tutti i marxisti culturali/multiculturalisti. (pagina 1166).

In conclusione, a me sembra chiaro che il problema dell’Occidente sono i fondamentalismi religiosi, da quelli di matrice islamica (esterni e interni, oggi) a quelli di matrice giudeo-cristiana (interni). L’altro problema è il riaccendersi dei nazionalismi delle piccole heimat. Questi due fenomeni – fondamentalismi e nazionalismi locali – sono armati contro la globalizzazione, il multiculturalismo, l’integrazione e anche l’immigrazione interna, dal Sud al Nord Italia, per pensare al caso leghista. Sono convinto che la globalizzazione vada governata (non proibita, che è idea infantile) in modo assai severo, perché i disvalori dell’estremismo religioso vanno combattuti da parte dello Stato laico. Ma vanno evitati sia lo scontro di civiltà che le guerre di religione, non foss’altro per la banale considerazione che il nostro Occidente – benestante, civilizzato e con la pancia piena – li perderebbe entrambi.

Borghezio & co.: i complici del camerata norvegese

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È il momento dell’intransigenza. È il momento di prendere sul serio i troppi ‘cattivi maestri’ di casa nostra.” Così concludeva il suo sacrosanto intervento politico su questo stesso giornale Filippo Rossi, uomo di Destra, chiedendo una cosa tanto giusta da risultare quasi banale: l’arresto di Mario Borghezio, deputato della Lega Nord e ‘cervello’ proveniente dal gruppo neonazista di Ordine Nuovo.

Borghezio da alcuni anni ha trovato il modo di guadagnarsi un posto al sole mediatico d’Italia rilasciando la sua settimanale dose di odio verso questa o quella minoranza. Stavolta potete ascoltarvi, sempre che ne abbiate lo stomaco, le affermazioni di questo signore a Radio 24 (incluse in calce a questo articolo), in cui ha dichiarato che “alcune delle idee di Breivik (il terrorista norvegese, ndA) sono condivisibili, altre sono ottime”. Il tutto a corpi delle giovanissime vittime ancora tiepidi e in spregio alla Legge Mancino. La notizia ha subito fatto il giro del mondo.

Ma leggendo i verbali dell’interrogatorio di Breivik, viene fuori che Borghezio non è l’unico esponente politico che può essere considerato come il mandante morale della strage di Oslo. C’è chi ha incontrato prima della strage il killer, come i capi dell’English Defence League, un partito di estrema Destra britannico, che hanno discusso la creazione di un movimento politico pan-europeo chiamato “I cavalieri templari”. E scorrendo le 1500 pagine del delirante manifesto del boia di Utoya, si scorgono i nomi, ripetutamente citati, di una serie di pensatori dell’estrema Destra europea. Ecco dunque spuntare il nome di Bruce Bawer, autore del bestseller reazionario While Europe Slept; il leader anti-islamico olandese Geert Wilders, capo del Freedom Party; l’editorialista canadese Mark Steyn, che scrive di solito sul National Review, autore del libro America Alone: the End of the World as We Know It; l’editorialista britannica Melanie Phillips, autrice del discusso pamphlet Londonistan; Gisele Littman, autrice sotto lo pseudonimo di Bat Ye’or di Eurabia: the Euro-Arab Axis; e poi i blogger anti-immigrazione Gates of Vienna, Atlas Shrugs e Jihad Watch. Nessuno di questi autori ha formalmente sostenuto la necessità di azioni violente, ma se li leggete si ricava un senso di angoscia, di terrore, un clima da declino dell’impero occidentale che può facilmente spingere le menti come quella di Breivik all’azione. Alcuni di questi personaggi, come la giornalista svizzero-ebrea Gisele Littman e il politico Geert Wilders, si sono almeno sbrigati a prendere le distanze dall’assassino, con dichiarazioni opposte a quelle di Mario Borghezio, e proprio per questo è necessario che il deputato leghista risponda delle sue parole.

Sono convinto che l’unico motivo per cui fino a oggi nessun pazzo criminale ha deciso di tradurre in pratica i concetti deliranti di Mario Borghezio è perché la sua credibilità filosofico-politica è pari a quella di un quaqquaraquà, di un pallone gonfiato. Borghezio, al pari di Feltri, fa parte di quella schiera di personaggi pubblici che è in grado di declamare spacconate violente solo dietro il caldo di una tastiera, ma al dunque non saprebbero come “affrontare a mani nude” [sic Feltri dixit], nemmeno un gatto persiano obeso. E tuttavia, lo spingere sul pedale della teoria dell’enemy within (il nemico che s’è insinuato nella nostra società), l’iniettare odio e paura tutti i giorni contro determinate categorie (soprattutto islamici, gay, zingari, europei dell’Est, nord-africani) si traduce nella formazione di cittadini idrofobi e spaventati, come quelli che commentano su Il Giornale. Il blogger Mazzetta ha messo in luce una selezione di questi commenti, facendo notare che sono pre-moderati dalla redazione del quotidiano di Feltri. Per fortuna non tutti i lettori de Il Giornale sono disposti a seguire Feltri e Borghezio nei loro ululati alla luna, come ha fatto notare su Il Fatto Quotidiano il collega Lorenzo De Cicco. Rimane però che la società italiana risente fin dentro il Parlamento di quest’azione quotidiana di spinta verso l’odio dell’alieno, sia esso straniero o omosessuale, e l’ultima controprova la si è avuta nella bocciatura della legge contro l’omofobia.

Breivik, Borghezio e altri esponenti dell’estrema Destra europea sono legati dall’odio verso alcuni principii, quali il multiculturalismo e l’integrazione. Principii che in un mondo globalizzato si propongono di governare un fenomeno – quello dello spostamento delle masse povere verso i paesi benestanti – che in sé non è cancellabile, non è arrestabile a meno di abdicare alla civiltà e di mettersi a sparare su quelle masse e su chi è disposto a governare la globalizzazione, come i giovani di Utoya. Le politiche dell’integrazione possono essere severe o meno severe – per esempio proibendo il velo a chi lavora per lo Stato, imponendo la conoscenza della lingua e della cultura del paese ospitante, eccetera – ma devono comunque essere politiche dell’integrazione: è questo banale principio che i pensatori di estrema Destra d’Europa non hanno ancora compreso.

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Fondamentalismo cristiano: come quello musulmano

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Il 22 luglio 2011 segna la data storica: da ieri sappiamo che il fondamentalismo cristiano è pericoloso quanto quello musulmano. Prima questi signori si “limitavano” ogni tanto ad ammazzare medici abortisti, e nessuno si allarmava più di tanto. Adesso sono passati ad ammazzare degli adolescenti a un campeggio dell’internazionale socialista.

Occorre difendersi, che i governi e i partiti ne prendano atto.

100 anni fa nasceva Marshall McLuhan

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Molti canadesi lo ritengono il Leonardo del loro Paese e dei nostri tempi. Marshall McLuhan, il teorico della comunicazione, l’esperto di media, il filosofo, il critico letterario, l’esperto di letteratura inglese, l’educatore, ma soprattutto colui che seppe prevedere, con trent’anni di anticipo, la creazione del cyber-spazio, il sorgere di un “villaggio globale” (termine da lui inventato) e la nascita del world wide web, nasceva cento anni fa, il 21 luglio 1911 a Edmonton, in Alberta, e oggi e nei prossimi giorni il Canada e l’intero mondo si prepara a commemorarne la nascita (McLuhan è morto a 69 anni, nel 1980).

Ricercatori e studenti di campi assai diversi si sono prima o poi imbattuti in alcuni dei concetti di McLuhan, che hanno avuto la capacità di lanciare un taglio di luce differente su problemi noti da tempo.

La nozione forse più famosa di tutte è quella che recita: “il medium è il messaggio” e viene studiata nelle scuole di giornalismo e di scienze della comunicazione almeno quanto gli studi sulla prospettiva di Giotto, Brunelleschi e Leon Battista Alberti sono studiate nelle facoltà di architettura. “Il medium è il messaggio” significa che la natura di un mezzo di comunicazione (il medium, appunto, ossia il canale di trasmissione di un messaggio) conta più del senso o del contenuto del messaggio stesso, poiché lo influenza. L’esempio oggi sotto gli occhi di tutti, è Internet: il modo elettronico e rizomatico in cui noi tutti comunichiamo nel web è molto più sovversivo di ciò che in effetti diciamo nelle nostre email o blog, e potete chiedere conferma ai dittatori dei vari regimi che sono caduti o stanno cadendo proprio a causa di questa verità.

Il principio “il medium è il messaggio” fu introdotto per la prima volta nel saggio Understanding Media: the Extension of Man (1964) e molti ricordano anche il geniale esempio usato da McLuhan per rendere più comprensibile il suo concetto: il pensatore parlò del bulbo di una lampadina, un tipico esempio di medium privo di contenuto, tuttavia in grado di creare un immenso effetto sociale e psichico, squarciando le tenebre con la sua luce e permettendo un’infinità di attività impossibili al buio. “La lampadina accesa crea un ambiente attraverso la sua mera presenza“, scrisse McLuhan, e lo stesso principio lo applicò alla televisione: la sua presenza, quando in funzione, crea un ambiente sociale a prescindere che trasmetta programmi per bambini o scene di guerra e violenza. La televisione ha un grado di coinvolgimento del pubblico che è sempre lo stesso, molto impegnativo, in grado di assorbire completamente lo spettatore. Per questo la tv venne definito da McLuhan “un medium freddo”, perché richiede un grado di partecipazione maggiore rispetto, per esempio, alla radio (un “medium caldo”) che invece offre la possibilità di un maggiore distacco da parte dell’ascoltatore.

Ma nella definizione di “medium” McLuhan include non solo il bulbo di una lampadina, la televisione e la radio, ma anche i giornali, il linguaggio, perfino le automobili e “qualunque nuova tecnologia, qualunque estensione di noi stessi” in grado di fornire indicazioni su come noi percepiamo il mondo circostante.

Il contributo di McLuhan alla teoria della comunicazione non è certo l’unico aspetto dei suoi studi. McLuhan nel 1951 pubblicò un volume intitolato The Mechanical Bride: Folklore of Industrial Man che sostanzialmente gettò le basi di un nuovo campo del sapere, oggi noto come “cultura popolare”. Tradotto in italiano come La sposa meccanica, il volume è un’antologia di saggi che possono essere letti in qualunque ordine, secondo lo stile della scrittura a mosaico. Ogni pezzo trae spunto dalla citazione di un articolo di giornale o di rivista, o da un annuncio pubblicitario, seguito dall’analisi testuale, contenutistica ed estetica proposta da McLuhan. L’autore non solo offre la sua interpretazione, ma analizza anche il rumore sociale, ossia il tipo d’impatto che quel dato annuncio o articolo può avere nei confronti del pubblico verso il quale è proprio indirizzato.

Altro testo iper-famoso è The Gutenberg Galaxy: the Making of a Typographic Man (1962) nel quale McLuhan spiega come la tecnologia della comunicazione (dall’alfabeto all’invenzione dei caratteri a stampa, fino ai media elettronici) ha influito sulla organizzazione cognitiva dell’uomo, che a sua volta ha determinato cambiamenti epocali nella sua organizzazione sociale.

Il Corriere Canadese ha recentemente intervistato Robert K. Logan, del McLuhan Legacy Network, e autore del recente saggio Understanding New Media: Extending Marshall McLuhan sui contenuti del festival per il centenario dalla nascita del grande pensatore canadese. Il programma è davvero esteso e prevede conferenze, convegni, programmazione speciale sulla CBC, proiezioni nelle fermate della metropolitana di Toronto e interessa davvero tutto il “villaggio globale”, con eventi celebrativi anche a Berlino, Copenaghen, Bruxelles, Bologna, Barcellona, Montevideo, Argentina, Polonia. In Nord America ci saranno manifestazioni a Winnipeg, Edmonton e New York.

Marshall McLuhan è stato capace di predire praticamente ogni aspetto dei media digitali che conosciamo oggi“, ha spiegato Logan al Corriere Canadese, “ha previsto l’arrivo di Internet, il fenomeno del crowdsourcing, l’esistenza degli smartphone, di qualcosa come Wikipedia. Ha previsto che l’economia sarebbe stata guidata dalla conoscenza, che i giovani non sarebbero più stati interessati a un lavoro ma a un ruolo, non passando più la propria vita all’interno della stessa compagnia ma muovendosi dall’una all’altra. E’ stato capace di prevedere il mondo così com’è 30 anni dopo la sua morte e abbiamo ancora molte cose da imparare da lui per quel che riguarda l’ecosistema dei media oggi“.

Anche la stampa di tutto il mondo sta celebrando i 100 anni dalla nascita di McLuhan, con inserti speciali da parte di Newsweek, Time Magazine, The New York Times, The Globe and Mail (con un bell’articolo dello scrittore Douglas Coupland), The Toronto Star fra le altre. Forse la celebrazione più eccentrica è venuta dalla rivista Wired, che ha addirittura nominato il guru del villaggio globale come il suo nuovo “santo patrono“.

Scuola e Facebook: proprio no

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“Posso essere tuo amico su Facebook?” Domanda apparentemente innocua, ma se sei un professore e chi lo chiede è un tuo alunno, la questione potrebbe portare a farti perdere il lavoro. Fra i nuovi problemi che gli insegnanti “di ogni ordine e grado” devono affrontare in questo inizio ormai ben avviato di XXI secolo, c’è infatti il decidere come comportarsi con i propri alunni quando, di solito in estate, i propri discenti chiedono il contatto su Facebook o un altro degli ormai diversi social network che occupano la rete e le ore di molti di noi.

Diciamo subito che un insegnante, per quanto giovane e alla mano, non dovrebbe porsi alla stregua di un amico con i propri studenti nemmeno in classe, nella vita reale: una qualche differenziazione di livello – se non altro d’autorità – è cosa buona e giusta, e aiuta gli studenti a capire che fino a un certo punto possono essere rilassati, ma oltre, no: è utile ai ragazzi riconoscere e accettare la differente funzione che ha chi siede in cattedra rispetto a chi siede tra i banchi. Soprattutto qualora in casa sia venuta meno la funzione educativa dei genitori, o del genitore, è bene che a scuola quella funzione rimanga viva e chiara. “Molti nuovi professori“, dichiara Sharon Friesen, vice-decano della University of Calgary, “desiderano essere apprezzati dai propri studenti (anche per via delle pagelle che gli studenti compilano sui loro prof al termine di ogni anno, ndA), ma presentarsi in modo professionale su Internet non significa mica diventare amico con i propri studenti, nemmeno su Internet.

Da questo principio discende che anche nella vita virtuale gli insegnanti devono essere iper-cauti nell’accettare la cosiddetta “amicizia” dei propri studenti su Facebook o similari. Anzitutto, non devono mai – ma proprio mai – chiedere loro il contatto per primi. In Canada, uno dei Paesi dove la diffusione di Facebook è ai picchi massimi (l’ultimo dato della CBS parla di 16,6 milioni di profili Facebook regolarmente aggiornati su un totale di circa 30 milioni di abitanti, quindi più del 50% dei canadesi ha un profilo FB attivo, più un altro 1,52 milioni che nell’ultimo anno ha invece smesso di tenerlo aggiornato regolarmente) il problema è molto sentito e sui giornali si parla ogni mese di casi che hanno portato alla penalizzazione disciplinare o addirittura alla sospensione di insegnanti che hanno sbagliato a relazionarsi coi loro studenti su un qualche social network.

La situazione sta diventando allarmante e lo scorso 11 aprile l’Ontario College of Teachers (un organismo analogo alla vecchia SSIS italiana, ma meglio strutturato, che stabilisce anche gli standard etici di comportamento dei suoi membri) ha richiesto ai suoi 230.000 insegnanti iscritti di riconsiderare i propri confini professionali su Internet. Fra gli altri “caldi suggerimenti”, si legge nel report, c’è quello di evitare di rispondere agli studenti usando il proprio indirizzo email personale, anziché quello della propria scuola o università, evitare di rispondere dopo le 22, anche quando le domande riguardano i compiti del giorno dopo. Il report parla anche di come usare Twitter o You Tube, ossia ricordandosi di non pregiudicare “la fiducia dell’opinione pubblica”. “Vogliamo assolutamente che gli insegnanti usino la tecnologia“, afferma Liz Papadopoulos, alla guida del Consiglio dell’Ontario College of Teachers, “ma vogliamo essere sicuri che tutti mantengano un giusto livello di responsabilità e di professionalità.

Il Canada, così come diversi stati degli USA e il Regno Unito, ha preso molto sul serio la situazione. Il Vancouver Board of Education ha definito un decalogo di comportamento che definisce “comportamento inaccettabile” lo scambiarsi messaggini sms fra insegnanti e studenti, l’aggiunta di contatti su social network e la corrispondenza da email non istituzionali. Il sindacato degli insegnanti, Canadian Teachers’ Federation, ha ammonito i suoi iscritti non solo a non usare la propria email privata, ma anche a pubblicare sul muro del proprio profilo di social network alcun commento riguardo ai propri studenti, sia a livello collettivo che – non sia mai – a livello individuale. Il sindacato ha anche ricordato di mantenere sempre “una voce professionale” nella corrispondenza, e di firmare con una firma standardizzata, “consona alla propria funzione di insegnante”.

Alcuni insegnanti hanno imparato la lezione nel modo peggiore: nel 2008 a Calgary un professore è stato punito quando un genitore ha denunciato la presenza di commenti denigratori sul suo profilo di Facebook riguardo al fatto che alcune mamme dei suoi studenti facessero uso di droghe. Un maestro elementare di Chicago è stato invece portato in Tribunale dal papà di un suo allievo che era stato preso in giro sempre su FB, con tanto di foto, per la sua pettinatura originale. “Gli insegnanti sono sempre in servizio“, commenta la Papadopoulos, “non è che appendono il loro cappello da prof al cancello d’uscita della scuola“.

A livello universitario, la University of Toronto ha risolto la questione alla radice: tutta la corrispondenza di lavoro fra insegnanti e studenti o tra professori deve essere svolta usando l’email istituzionale dell’università stessa, anche per il non trascurabile dettaglio che tutta la post@ ricevuta e spedita fra due indirizzi istituzionali non è privata, ma pubblica, nel senso che viene trattenuta in memoria sul server dell’università e, in caso di necessità, può essere stampata e portata davanti a uno dei vari gradi di giudizio interni all’università, qualora una delle parti lo ritenga utile. Nella mia esperienza in quell’università questo è un incentivo non da poco a mantenere un tono professionale e anche a esprimersi in una delle due lingue ufficiali del Canada.

Per il resto, quasi tutte le università canadesi e americane posseggono un software sul genere di Blackboard, una sorta di lavagna di classe virtuale – o se preferite una nuvola su Internet – nella quale l’insegnante lascia tutte le informazioni relative al suo corso – compiti per casa inclusi – e impone ai propri studenti di connettersi alla nuvola per aggiornarsi e partecipare alle discussioni virtuali nei forum eccetera. Dal momento che ogni università fornisce ai propri studenti migliaia di postazioni internet gratuite all’interno del campus, ecco così che il tempo per porre domande si estende all’infinito passando dalla dimensione reale della classe a quella virtuale di Blackboard. E’ stato dimostrato che il software aiuta gli studenti più timidi a partecipare alle discussini in classe, a dire la propria, a confrontarsi e, di conseguenza, a non vedersi affibbiare un voto basso proprio relativamente alla loro partecipazione.

Come a dire: la tecnologia può essere un problema in più per gli insegnanti, ma solo se questi non sanno come usarla correttamente.

Canada-UE: verso l’accordo di libero scambio

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Gli accordi di libero scambio fra Paesi o aree economiche con altri Paesi o aree economiche sono un fatto relativamente frequente, che merita di solito poco spazio sulla stampa generalista degli Stati interessati. Diverso è quando la seconda nazione più grande del mondo, lo sconfinato Canada, si mette sul rettilineo finale di un accordo di libero scambio con i 27 Paesi dell’Unione Europea. E’ quanto sta accadendo in questi giorni, con i funzionari dei governi di Canada e UE che stanno lavorando a Bruxelles per portare a termine un risultato lungamente inseguito dai governi canadesi degli ultimi 15 anni, ma mai raggiunto prima.

Potenzialmente, questo accordo fra Canada e UE (che porterà all’introduzione di un altro di quei buffi acronimi tipo “Nafta” – North American Free Trade Agreement, stavolta magari nella veste di “Ceufta” Canada – European Union Free Trade Agreement) potrebbe rivelarsi un volano eccezionale per ambedue le economie, con l’abbattimento di tariffe e quote d’importazione su tutte (o gran parte delle) le merci prodotte nelle due macroaree, nonché la possibilità di esportare lavoratori europei in Canada (e viceversa, ma la cosa sembra meno probabile per un banale dato demografico).

In realtà la situazione non è tutta rose e fiori, e infatti in Canada alcuni economisti hanno suonato l’allarme. Tra gli altri, Jim Stanford, sindacalista della Canadian Auto Workers, che scrive sul sito Rabble.ca: “La soluzione migliore sarebbe una vera partnership economica reciproca fra UE e Canada, qualcosa di molto più esteso di questo accordo di libero scambio, che si presenta con una tempistica tutta sbagliata per noi canadesi.” Stanford sostiene che la debolezza dell’Euro nei confronti del dollaro canadese (qui chiamato “Loonie”) ha già portato a un deprezzamento delle merci europee sul mercato della Foglia d’Acero del 25%, con una conseguente salita dell’importazione di queste merci sulle tavole dei canadesi. Inoltre, Stanford sostiene che la percentuale media delle tariffe europee sulle merci canadesi è “solo del 2% e anche l’azzeramento di questo 2% non porterà a un sostanziale aumento dell’export di prodotti canadesi sulle tavole europee, anche a causa di un dollaro canadese che, si prevede, si apprezzerà ancora sull’Euro”.

Il sindacalista vede proprio nera la situazione economico-finanziaria europea e teme anche che gli Stati della UE si avviino a una prossima deflazione (un’inflazione negativa, che porta i prezzi dei beni a scendere anziché a salire col tempo), con conseguente stagnazione dell’economia e ulteriori tagli alla spesa pubblica di ciascun Paese. Una situazione che di certo non spingerebbe i consumatori o gli Stati a spendere nell’acquisto di prodotti canadesi, che fra inflazione e forza crescente del Loonie, saranno sempre più cari.

Il sindacalista naturalmente è condizionato dal suo punto di vista di difensore del prodotto-auto canadese, che con l’accordo di libero scambio sarà messo in difficoltà dalla maggiore competitività delle auto di marche europee.

Però, come invece ricorda l’editorialista del Globe and Mail John Ibbitson, non tiene conto del fatto che il Canada esporterà verso l’Europa soprattutto materie prime, dalla legna al petrolio, oltre che prodotti alimentari come manzo e maiale. Inoltre, Stanford non considera che il progetto di libero scambio consentirà al Canada di diminuire il livello della sua dipendenza economica dagli Stati Uniti, oggi immenso se si calcola che gli USA acquistano il 75% dei prodotti canadesi, mentre l’UE solo il 10%. Ibbitson quindi prevede che questo grande trattato “porterà allo sbocciare di un boom di accordi economici di piccola e media entità, producendo ricchezza e lavoro su tutte e due le coste della pozzanghera (l’Oceano Atlantico, come è chiamato dai Canadesi, ndA).”

In economia, la vastità e la vicinanza geografica dei mercati è ciò che detta legge, e la manovra del governo conservatore canadese di Stephen Harper e del suo ministro del Commercio Estero, Ed Fast, è, anche a mio parere, previdente nel tentare di allentare la morsa del mercato a Stelle e strisce su quello della Foglia d’Acero, soprattutto in un’epoca di crisi per il vicino americano.

Proprio  in questi giorni Barack Obama sta disperatamente cercando un accordo con l’opposizione repubblicana che gli consenta di ridurre il deficit e il debito dello Stato prima della data del 2 agosto, data oltre la quale gli USA dovranno dichiarare il proprio stato di default (in Finanza, la condizione in cui un debitore ammette di non essere in grado di rispettare un contratto di pagamento presso uno o più dei suoi creditori). E’ improbabile che tutto ciò accada, perché sarebbe un vero suicidio economico per gli USA e avrebbe conseguenze formidabili sull’economia dell’intero pianeta, inclusa quella canadese e quella cinese, che detiene da sola il 10% del debito americano. Ma in economia, mai dire mai, pensa il governo di Ottawa.