Che anno è stato

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E’ stato l’anno in cui ho scritto due tesi di dottorato. La prima, l’ho buttata nel secchio, la seconda la sto ancora finendo e la porterò il prossimo gennaio, sapendo però che la sua base stavolta è stata già approvata dal Comitato.

E’ stato l’anno in cui ho terminato di scrivere un romanzo umoristico, Tutta colpa di Miguel Bosé che poi è stato pubblicato da Fazi. Diverse cose potevano andare peggio (pubblicare con qualcuno più piccolo e meno onesto di Fazi, per esempio, o non pubblicare affatto), diverse altre potevano andare meglio (se Miguel Bosé non fosse uscito dalla sinergia che aveva firmato con Fazi, se non avesse annullato il suo tour italiano, se il mio libro avesse potuto vendere quelle “almeno 30.000 copie” che il responsabile marketing della Fazi aveva previsto, date le circostanze che avevamo sul tavolo; oppure avere quel sì alla pubblicazione da parte di Rizzoli o Einaudi, al quale sono stato vicino tanto così in questo 2010, e per due romanzi diversi!) ma ci accontentiamo allegramente della via di mezzo. Proprio ieri un lettore di nome Fabrizio mi ha scritto su Facebook cosa ha pensato di questo nuovo romanzo:

mi hai “costretto” a leggere 394 pagine in un sol giorno… Ora sei nella mia libreria, ma soprattutto nella mia mente, insieme a Paterlini, Tondelli e Leavitt.
Ma non è solo una questione di omosessualità o metrosessualità: direi che il tuo libro fa parte di quei percorsi di vita che ognuno di noi deve, o ha la fortuna di, fare.
Sei riuscito a farmi ridere, riflettere, piangere. Sei riuscito a farmi ripercorrere gran parte della mia vita e di tutta quella di noi ragazzi “sensibili” nati negli anni ’70.
La verità è che questo libro, assieme a quelli dei sopracitati autori, avremmo dovuto leggerlo a tredici anni, quando eravamo in cerca di risposte.
O forse no.
Perchè l’essere stati costretti a cercarle solo con le nostre forze quelle risposte ci ha resi, nel bene e nel male quello che siamo.
Grazie!
Fabrizio

E ammetto che la cosa mi ha dato un senso di orgoglio. Scrivere (e pubblicare) dopotutto ha questo significato: regalare qualcosa di proprio che abbia un sapore universale, che valga per molti se non per tutti. Scrivere è prendere per mano il proprio lettore e illustrargli dei mondi che, in realtà, sono suoi. Ma il bello non è tanto illustrare, secondo me, quanto prendere per mano e fare un tragitto insieme, imparando reciprocamente.

E’ stato l’anno in cui mi sono messo con Lisa, e se anche questa relazione è giovanissima e molto lontana dal potersi dire “sicura”, la sua compagnia ha colorato le mie giornate di fine 2010 in un modo intenso, come non ricordavo da diverso tempo.

E’ stato l’anno in cui nessuno dei miei amici o parenti stretti è morto, e questo di per sé è un fatto positivo, che tendiamo a ricordare solo quando qualcosa di brutto invece accade. Un pensiero va al mio papà in seconda e a Sergio, che stanno combattendo una dura battaglia contro il solito male. Un altro pensiero va a quel* mi* amic* che ha scoperto di essere sieropositiv*: coraggio, ci sarà presto una luce in fondo al tunnel.

E’ stato l’anno in cui qualche amico ha avuto un figlio o una figlia, e tutto è andato bene.

E’ stato un anno di lacrime importanti, ma di quelle che, tutto sommato, fanno bene.

Sì, è stato un buon anno. Speriamo che il 2011 sia in grado di tenere la barra e, magari, di migliorare. I prossimi sei mesi saranno importanti: forse riuscirò a finire questa ossessione di dottorato e potrò capire se la mia convivenza (la seconda della mia vita, eh) avrà uno sbocco positivo o no. Quindi, direi che il 2011 si annuncia gravido di possibilità. Stiamo a vedere, accettiamo quello che non dipende da noi, e lavoriamo per ciò che è nelle nostre mani.

Buon anno a tutti gli anellidi.

Quando si odia il lettore: Seminario sulla gioventù, di Aldo Busi

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Nella postfazione a questo importante romanzo del Novecento italiano, Massimo Bacigalupo ha scritto:

“Questa narrazione semiautobiografica che alterna aneddoti, incontri, congiungimenti di corpi, di dialoghi, di intuizioni, divagazioni fa pensare a Luis-Ferdinande Céline, e forse più al narratore che vive alla giornata di Henry Miller, di cui Busi ha il narcisismo ma non l’ottimismo whitmaniano: le sue relazioni (omo)sessuali risultano inevitabilmente spiacevoli e degradanti, non sono mai oggetto di delectatio morosa come nella scrittura pornografica (e in Miller), hanno bensì una certa meccanicità senza sbocchi, da aneddoto abortito, sono gesti isterici e fantastici di cui ridere, discorso, non realtà. Alla vena diciamo neorealista e a quella dell’io picaresco e narcisista se ne può aggiungere una terza, quella del racconto manierista dallo stile ricercato di cui la letteratura dell’omosessualità offre molti esempi.”

Mi trovo d’accordo con Bacigalupo: il romanzo d’esordio di Busi è in effetti un romanzo di formazione dove esiste anzitutto una forma di narcisismo parossistico che trasmigra addirittura in una narrazione insieme picaresca e postmoderna, con un uso del linguaggio senza dubbio colto, ma vittima di un cesello manierista che imita una letteratura di secoli andati, con l’oggettivo problema di risultare particolarmente artificiosa, ampollosa e inadatta a una sensibilità da lettore di questi tempi.

Busi scrive un romanzo iper-compiaciuto, ricco di personaggi e di sottotrame, complesso e articolato, nel quale respinge a tutta forza i lettori che, incauti, si avviano lungo le sue pagine. Il messaggio dell’autore è chiaro: qui voi, o stolti, non ci potete arrivare. E infatti le uniche parti sinceramente godibili di questo pesantissimo tessuto dalle trame così orlate e riprese sono quelle dove all’autore scappa la volontà di allontanare il disprezzato lettore ed emerge la sua voce sincera, da scrittore di povera fine Novecento. Ma il lettore, calviniamente, ha qui il dovere più che il diritto di saltare pagine e capitoli, di stuprare questo testo nel modo che più gli aggrada. E dunque del romanzo, consiglio la lettura dei soli capitoli “Diario di un barista” e “Altri pantani”, dove il carattere autobiografico è più evidente, così come la voce originale di Busi è più comprensibile e, diciamocelo, godibile.

In generale, è stata una vera sofferenza arrivare alla fine di questo libro. Sarà forse un mio limite di lettore, però rimango dell’idea che si scriva per farsi (intel)leg(g)ere e non per allontanare. E’ inutile denunciare contrarietà verso la mise-en-abîme calviniana e borgesiana per poi riprenderla, sottotraccia, lungo tutto il romanzo. Uno strumento narrativo o piace e si usa, o non piace e non si usa. Usarlo disprezzandolo non fa che attirare incomprensione, se non proprio fastidio.

Valigia Blu denuncia Radio Padania

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Non so voi, ma non se ne poteva davvero più. I neonazisti di Radio Padania sono stati finalmente denunciati alla polizia, ora ci sarà un processo e un giudice stabilirà se si può incitare al razzismo e alla violenza indisturbati, trasmettendo via radio su parte del territorio nazionale. Un immenso grazie alla giornalista Arianna Ciccone, che ha dato il via alla denuncia.

All’argomento aveva dedicato un’Amaca anche Michele Serra, pubblicata da Repubblica.

Il mio commento è invece cinematografico:

 

Dialoghi lisergici

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Per oggi, il più bello è stato:

Lisa: “Well, I’m not a literary cricket but…” (laughs loudly)

Io: “I don’t give a shit about literary critics, while I love listening to literary crickets!”

***

E poi, passare due ore di un pomeriggio freddo, rintanati a casuccia a decidere nomi per figli che non sono nemmeno lontanamente all’orizzonte, è divertente. Occorre dire che Lisa e io ci abbiamo messo sì e no 20 minuti a decidere il primo e secondo nome sia per due ipotetiche bambine che per due ipotetici bambini. Siamo molto soddisfatti dei risultati raggiunti, e non ve li diremo mai, ché poi ci copiate!

Love and other catastrophes

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Negli anni ’90 ci fu una deliziosa commediola australiana che si intitolava “Love and other catastrophes“. L’idea era quella di raccontare la difficoltà e la bellezza delle relazioni d’amore di persone intorno ai 30 anni, il tutto in un tono di ironia e umorismo intelligente. Fu una pellicola gradevolissima, che mi fece ridere e pensare. Forse dovrei rivederla, ora che sto con una delle donne più coinvolgenti che abbia mai incontrato, e che siamo tutti e due intorno ai 35 anni, e che dio sa quanto sia bello e impegnativo iniziare un rapporto attorno ai 35.

Qui trovate un breve elenco delle battute di quel film, ma la più esemplare di tutte è una abbastanza semplice:

Love is always dangerous.

Va da sé che il miglior film di tutti i tempi sul tema “uomini e donne” è “When Harry Met Sally“. Vince per no contest.

 

Da “scopiamo?” a “skypiamo?”

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Sì sì, insomma, è un classico, e lei c’ha già fatto un blog e una rubrica di successo su. Ma è proprio vero che uomini e donne sono fatti per parlarsi, parlarsi, parlarsi e non capirsi. Quando ti capita poi di dover passare parte delle festilenze a distanza, subentra il danno che crea la comunicazione in videoconferenza. Non ho bisogno di dirvi quanto sia negativo passare dallo “scopiamo?” allo “skypiamo?”

Vi sarà capitato, nel vostro rapporto di coppia momentaneamente a distanza, di aver detto una frase sbagliata. Niente di gravissimo, ma qualcosa di sbagliato. Lì per lì la dici, non te ne rendi conto, lei si offende, tu chiedi spiegazioni e poniamo il caso fortunato in cui lei te le dà. Qui possono succedere quattro cose:

a) hai le spiegazioni del perché lei s’è arrabbiata, ma non capisci e pensi di avere ancora ragione;

b) hai le spiegazioni del perché lei s’è arrabbiata, capisci, e pensi di avere ancora ragione;

c) hai le spiegazioni del perché lei s’è arrabbiata, capisci, e pensi che sì tutto sommato ha ragione lei, ma non lo vuoi ammettere subito;

d) hai le spiegazioni del perché lei s’è arrabbiata, capisci, e pensi che sì tutto sommato ha ragione lei, e hai la prontezza critica di ammettere subito che in effetti hai detto una smarronata e le chiedi scusa.

Nel caso a), comune a moltissimi uomini, non c’è molto da fare. Probabilmente l’esemplare maschile corrisponde al modello “maschio da monta” e la maggior parte dei ragionamenti che esondano dal concetto “io dentro tu intorno” non sono coglibili. Quindi, o care donne, lasciate ogni speranza o voi che fate entrare. Ma saprete consolarvi in altro modo.

Nel caso b), comune a moltissimi uomini tra quei non molti che comprendono quando gli si parla, è prodromico a lite di lunga durata, e tanti tanti auguri.

Nel caso c), comune a moltissimi bambini, urge guardare la data di nascita sulla patente del vostro compagno, sempre che abbia raggiunto l’età per avercela.

Nel caso d), care ragazze e signore, complimenti vivissimi: avete scelto un raro esemplare di homo sapiens sapiens, anche del modello XXI secolo, che ammette di avere torto quando ha torto. Se poi è anche del Toro, significa proprio che siete dinanzi a un miracolo della natura, per cui tenetevelo stretto e poi non dimenticate di farvi i complimenti allo specchio. Siamo onesti: quando vi ricapita di incontrare un uomo così?

Naturalmente, certe donne, anche quando si accompagnano a uomini del tipo d), non possono mica essere contente, invece. Perché le parole – che per gli uomini hanno un senso del tipo: “Se mi chiedi scusa per aver detto una cosa sbagliata senza volere, è come se non avessi detto la cosa sbagliata. Si cancella tutto e via, verso nuove avventure” – per queste donne no. Loro, “hanno bisogno di tempo” per poter uscire dal mood incazzoso e incazzato. Le tue parole non sono mica abbastanza. O meglio: sono abbastanza per farle incazzare, ma non abbastanza per chiedere scusa ed essere perdonato. Allora che fa un maschio democratico di tipo d)? Beh, che domande, dà tempo. E se dopo 12 ore l’incazzatura non è ancora svanita? Comincia a incazzarsi anche lui. Perché buoni e calmi e ragionevoli sì, ma tappetini no, sennò che ci facciamo col testosterone? Allora, davanti alle tue rimostranze: “Ma sei ancora incazzata per la mia frase sbagliata di 12 ore fa, per la quale ti ho detto che avevi ragione tu e chiesto scusa dopo tre minuti?” Lei ti reitera, appunto: “Sì, non è che le scuse cancellano ciò che hai detto”.

Ora, intendiamoci: non è che tu con la tua frase sbagliata le hai insultato la mamma e la nonna fino alla sesta generazione, eh. Hai solo espresso un pacato dubbio riguardo a un suo ex, che con lei c’aveva provato quando già stavate assieme, che lei aveva giustamente sfanculato dietro tua saggia alzata di sopracciglio, e ora lui appare colto da serissima condizione di salute. Conoscendo le mille risorse degli uomini rigettati – perché ne hai fatto parte anche tu almeno una volta – l’ipotesi di architettare una cornice “fine-di-vita” pur di rivedere colei che t’ha detto no, non è del tutto folle. Poi però ti sei reso conto subito che la cosa è un po’ estrema, e che in fondo il tuo pensiero è un po’ troppo maligno, e di qui le tue scuse. Che non bastano mica, ah no. Quindi lei ti comunica che vuole fargli visita, e tu consideri che tutto sommato è il comportamento giusto, quello “umanitario”, ma non è che proprio fai i salti di gioia per questa decisione. E non perché non ti fidi di lei – ché di lei ti fidi ciecamente – è che non ti fidi di lui. Lei apprezza la tua approvazione, ma getta la cosa nel cestino delle questioni scontate nel giro di secondi tre esatti. E torna a essere arrabbiata per la tua frase primordiale. Tu a questo punto le dici: “Beh quando ti è passata, chiamami”. E sei così conscio di aver detto per la seconda volta una frase sbagliata. Che lei puntualmente ti fa notare, dicendo che se tu ti chiudi, lei si chiuderà ancor di più, così rimani al videotelefono con la stessa voglia di starci che hai di passare il natale con i tre simpatici nipoti adulti che non sono venuti alla presentazione del tuo libro, nonostante tu glielo abbia proprio chiesto, per una volta.

Io le adoro, le festilenze.