128 concorrenti per una cattedra a Chicago

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Quando si marcia verso la fine del proprio dottorato, che in America è considerato come il primo scalino della carriera accademica, e non come l’ultimo della propria istruzione, si è chiamati a iniziare a guardarsi attorno. Questo significa che si è diventati degli “ABD”, ossia “All But Dissertation”, quindi che ti manca solo di scrivere e discutere la tesi di dottorato per prendere il pezzo di carta. Quando sei un ABD devi cominciare anche a fare delle domande di lavoro in giro per il mondo. Queste domande si fanno quasi per sport, perché le possibilità di un semplice ABD d’esser assunto come Lecturer o altro in un’università sono pressoché inesistenti. Chi viene assunto, di solito, ha già discusso il suo primo PhD, o addirittura ne ha già messi due alle spalle. Questo è particolarmente vero nell’epoca di crisi in cui stiamo vivendo. Una crisi che colpisce anche il mondo accademico, con la cancellazione di cattedre, la chiusura di Dipartimenti e, raramente, anche la chiusura di piccole università. Tuttavia, le domande le facciamo lo stesso, noi ABD, se non altro come allenamento a mettere insieme tutti i documenti burocratici e professionali necessari a presentarsi alla linea di partenza. Fra questi, c’è il Teaching Dossier, un oggetto di cui parlerò in un prossimo post.

In media, per ogni offerta di lavoro, concorrono fra i 30 e i 40 aspiranti. Nei mesi scorsi ho fatto tre domande diverse e si è saputo l’esito di una di queste tre pochi giorni fa per la DePaul University di Chicago. Anziché di avere 30-40 concorrenti, ne ho avuti 127, con me 128.

128 domande significa 128 persone che hanno un dottorato, che sono italianisti, che hanno delle pubblicazioni e che sono disposte a trasferirsi a Chicago.

Il numero è davvero alto, perché con 128 candidati hai l’impressione che occorrerà una decina d’anni prima di essere selezionato per una cattedra in un’università un po’ decente. Uno dei miei prof mi ha consolato dicendo che in realtà la DePaul non è un’università media, ma medio-alta. Non certo ai livelli di una Ivy League o di una Oxford o Cambridge, ma comunque un posto molto ambito. Quindi, sicuramente, gente che è già assunta in università più piccole o più isolate, avrà fatto domanda per la DePaul ed è andata quindi a ingrossare le fila. Rimane però la sensazione che anche per la carriera accademica all’estero cominci a esserci una coda molto lunga. Se il rapporto per insegnare alla DePaul è stato di 1 a 128, rimane la curiosità di sapere quale sia il rapporto per chi è abilitato all’insegnamento nei licei per una data materia per una data provincia. Sarà poi molto più alto di 1 a 128? Non credo.

18 pensieri su “128 concorrenti per una cattedra a Chicago

  1. prosaica

    Sarebbe utile sapere non solo quanti dei concorrenti hanno gia’ un posto altrove (che quindi si libererebbe se andassero a De Paul), ma anche quanti sono i posti a cui fanno domanda le stesse persone.
    Mi spiego meglio: nel mio settore, una hard science, praticamente tutti fanno domanda a tutti i posti: quel che conta non e’ quindi il dato locale (N domande per un posto) ma il totale (N aspiranti prof su M posti disponibili).

    Detto questo, da noi il tt (tenure-track – posto a tempo determinato che diventa fisso se, dopo sei anni, hai conseguito sufficienti risultati) subito dopo il PhD non esiste. A seconda del settore, ci vogliono da due a sei (e piu’) anni di postdoc.

    Infine: in bocca al lupo!

  2. Prosaica, sì hai ragione, sarebbe utile saperlo. Ma la DePaul non ha fornito dei dati così dettagliati. Non sono sicuro di quel che dico, ma credo che anche nel mio settore il TT non esista subito dopo il PhD. Una strada sono i PostDoc, un’altra è il secondo PhD magari in un Paese diverso (anche un altro continente, se è per questo). E cmqe dopo il PhD in genere si va verso posti da Lecturer, al limite da Assistant. Generalmente sono posti da un anno, da due anni, da tre anni, rinnovabili. Insomma, è precariato, magari di lusso, considerati gli stipendi in confronto al precariato italiano, ma pur sempre precariato.

  3. Filippo Zuliani

    Benvenuto nel fantastico mondo della carriera accademica. Non so sia applicabile anche per l’italianistica, ma nell’accademia delle scienze “dure” – fisica, chimica, ingegneria, etc – l’aumento esponenziale dei concorrenti e’ cosa nota a chi sa e vuole osservare. Con la moltiplicazione dei fondi per PhD, PostDoc e progetti assortiti (ma non delle cattedre) la ratio non-strutturati/strutturati si attesta circa sul 3:1. Assumendo un tempo di vita medio del PostDoc di 5-6 anni, quando ci vuole per strariempire tutte le cattedre e creare code mostruose di gente in attesa? Io ho fatto un PostDoc, mi sono reso conto di che aria tirava nel mondo delle scienze “dure” accademiche e ho salutato per darmi alla ricerca industriale. Di fare il precario di lusso (ma neanche tanto) a spasso per i cinque continuenti non ne avevo proprio voglia.

  4. Ivan P.

    Io devo dire di essere impressionato dal numero di candidati per un’application dell’area di italianistica…

  5. Filippo Zuliani

    PS la ratio non-strutturati/strutturati di 3:1 e’ calcolato NON considerando i PhD tra i non-strutturati, ma solo PostDoc e similari. Considerando anche i PhD la ratio si attesterebbe sul 9:1, ma e’ un numero da prendere con le molle perche’ almeno meta’ dei dottorandi in scienze “dure” lascia l’accademia per il privato una volta conseguito il titolo di PhD.

  6. “l’accademia” è un termine che usa solo filippo 🙂
    che dice l’italianistica ? 🙂
    cmq io di postDoc ho fatto solo 2 anni e mezzo (scienze dure), ma si sa la Francia è il paese del socialismo reale ….

    e comunque si’, con la crisi i posti sono meno un po’ ovunque.

    bon courage!

  7. L’italianista dice che chiamare le “hard sciences” scienze dure, è un po’ ridicolo. Io le chiamerei “scienze vere”, ma sono di parte, nel senso che sono del tutto sicuro che i campi umanistici sono soggettivi mentre quelli fisico-matematici sono oggettivi. Il settore principe della soggettività è poi la critica letteraria, dove virtualmente chiunque può dire la qualunque, purché sappia come fondare la propria teoria. Già in Storia, per dire, se mi metto a negare l’esistenza della Shoah rischio di andare in galera, e la cosa mi pare giustissima.

    “Accademia” per “Università” o “Ricerca” è chiaramente un false friend anglofono, che però mi piace e non trovo ci sarebbe niente di malvagio se fosse assorbito in italiano. Voglio dire, siamo nella condizione di prendere un false friend come “quoto” che per altro in italiano esiste e ha tutt’altro significato, e di sostituirlo al più breve “cito”, e ci stiamo a preoccupare di “Accademia” in luogo di “Università”?

  8. io se è per questo le chiamerei “scienze” tout court …. 🙂
    Anche in francese si dice “sciences dures”, mentre “accademia” per Università non si usa.
    Ovviamente “quoto” non gli passa neanche per l’anticamera del cervello di usarlo …

  9. A chi lo dici! Stanno tagliando posti di lavoro e grants dappertutto. Ho fatto alcuni colloqui e ho dovuto competere con altri ricercatori con più esperienza e pubblicazioni. La competizione ormai è massiccia. Anch’io sto seriamente pensanod di buttarmi nell’industria.

    p.s.
    Anch’io uso l’inglesismo accademia in italiano 😀

  10. ale

    Per favore, usare “scienze vere” o “scienze” tout-court per le scienze naturali o esatte o “hard”, come se tutto il resto non fosse scientifico (e quindi da non prendere sul serio), significa tornare a prima del Positivismusstreit degli anni Sessanta… Secondo voi la filologia classica, ad es., non sarebbe scientifica perché? Perché non fa esperimenti? O perché non usa la matematica? Ci credo che poi non vi danno una cattedra…

  11. Tranquillo Ale, che la cattedra ce la danno, alla fine. Diatriba stantia questa, ma rimango dell’idea che “scienze” siano quelle che si basano su un piano oggettivo, possono provare l’esattezza delle loro teorie attraverso esperimenti e controprove. Le discipline umanistiche possiamo convenire di chiamarle, tutt’al più, “scienze umanistiche”, ben sapendo che l’aggettivo serve da bilanciatore-neutralizzatore del nome. Faccio notare che in inglese il termine scelto è completamente diverso e molto più sincero: “Fine Arts”. Di “science” nemmeno il nome. Poi mi parli proprio di filologia classica, una disciplina che si basa sullo studio e l’interpretazione dei testi antichi! Ossia dove il grado di soggettività dello studioso è maggiore e, entro certi limiti, pure altamente auspicabile!

  12. ale

    Beh, se guardiamo all’aspetto linguistico, in tedesco le humanities si chiamano Geisteswissenschaften, ossia scienze (!) dello spirito, proprio perché Dilthey (che introdusse il termine, se non vado errato) diceva che le scienze interpretative non sono per questo meno scienze: interpretazione non significa opinione né tantomeno arbitrio. E la filologia classica si occupa anche di cose abbastanza oggettive tipo datare un testo in base al fatto che una certa parola che vi ricorre sia o meno testimoniata nel periodo in questione (come fece Valla quando dimostrò scientificamente – non saprei che altro termine usare – che la donazione di Costantino era un falso medievale). Anche nel tuo campo conosci la differenza tra un commento più o meno soggettivo su un autore (scritto in forma di saggio o di elzeviro o di commento su amazon) e un lavoro scientifico fatto leggendo altri interpreti e citandoli in nota in modo da permettere al lettore di leggerseli e di vedere se per caso non li hai citati a sproposito (questo corrisponde grosso modo alla ripetitibilità degli esperimenti delle hard sciences), ecc. Senza dimenticare che persino le hard sciences non sono completamente immuni da una certa soggettività, se pensi che alcune teorie sono considerate preferibili ad altre per la loro eleganza, come nel caso della Strings Theory. In fondo anche le hard sciences non dispongono della verità ultima, come insegna Popper. Certo, nella maggior parte dei casi sono molto più “solide” delle scienze umane, ma non cadiamo in un positivismo ormai datato, per favore, tutto qui. E in bocca al lupe nella ricerca di una cattedra! Te la meriti, scherzi a parte.

  13. gabriele

    Da ricercatore in una facoltà di giurisprudenza, devo lasciare un commento, anche se tardivo, per piantare la bandierina delle scienze sociali (social sciences), ignorate nei post precedenti – io non le includo né tra le scienze dure/vere/esatte né tra le discipline umanistiche.

    E, a proposito di anglismi e false friends, a me sembra che anche ‘industria’ sia una traduzione impropria di ‘industry’; direi piuttosto ‘settore privato’ o ‘aziende’.

    Vi do purtroppo brutte notizie dal Regno Unito, dove le anticipazioni (o conferme) di ieri sui tagli alla ricerca per il 2011 stanno rendendo l’atmosfera di varie facoltà e dipartimenti ancora più irrespirabile; i manager delle varie università parlano di tempi duri ed ‘esuberi’, secondo me molto spesso più per eccesso di zelo che per reale necessità. Questo paese sta definitivamente impazzendo: da progressista invoco i ‘tories’ a gran voce, come cura contro certe decennali incrostazioni e paranoie (mi sbaglierò…)

    Sciltian, in bocca al lupo per tutte le applications!

  14. Ecco, le scienze sociali secondo me è una definizione che ha senso. E lo dico da laureato in Scienze politiche 🙂 “Scienze sociali”: le discipline che studiano la società, e che hanno una serie di regole oggettive. Non a caso, il diritto è la disciplina umanistica più scientifica, in quanto ha un suo preciso linguaggio nel quale ogni termine ha un preciso significato oggettivo, e non si può ciurlare nel manico più di tanto.

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