Cosa significa “diversity” alla UofT

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Sebbene sotto scrittura di tesi, oggi sono andato a una lezione del mio corso THE500, che è stata una gran scelta. Il modulo di oggi parlava di Universal Design, ossia del progetto di inclusione che le università canadesi approntano per cercare di garantire a tutti gli studenti, in tutte le condizioni personali (non di prima lingua inglese, con impedimenti cognitivi, con impedimenti fisici, studenti-lavoratori, studenti-genitori, ecc.) la possibilità di seguire alla pari con tutti gli altri le lezioni universitarie. Sì, lo so, stanno avanti anni luce rispetto all’Italia, ma non più di 20 o 30AL.

Per farci capire il grado di diversità della nostra università, ci hanno chiesto di fare un quiz. Dovevamo dare delle percentuali e un numero, cercando di indovinare la composizione della popolazione studentesca della UofT. Ho azzeccato solo tre dati su otto, e sbagliando sempre in difetto. Come a dire: questa università è MOLTO più pluralista e ricca di diversità di quello che io pensavo, e il bello è che io pensavo di essermi tenuto largo… Ecco i dati reali:

Percentuale di studenti la cui prima lingua non è l’inglese: 44%

Percentuale di studenti che hanno un papà con meno della laurea: 39%

Percentuale di studenti che hanno una mamma con meno della laurea: 44%

Percentuale di studenti del I anno di laurea che si prendono cura di altre persone a casa: 47% (familiari, figli, sposi, ecc.)

Percentuale di studenti del IV e V anno di laurea che si prendono cura di altre persone a casa: 45%

Percentuale di studenti che non sono cittadini canadesi: 19%

Circa 2000 studenti hanno una disabilità cognitiva o fisica (su 100.000)

Percentuale di studenti che hanno un reddito minore di 50.000$: 44%

 

5 pensieri su “Cosa significa “diversity” alla UofT

  1. serena

    Del Canada in Italia si parla gran poco, Nordamerica = Stati Uniti. Guardando in TV, nottetempo, qualche puntata del serial tribunalizio “Alla corte di Alice” (“This is Wonderland”) mi sono incuriosita sulla società canadese. La serie, con bravissimi attori, è spassosa e lieve, nonostante l’alternarsi di vicende atroci a storie semplicemente assurde.

    Melting pot. Come penso ovunque, a finire in tribunale sono più di frequente dei reietti, frequentemente degli immigrati; l’insufficienza delle istituzioni a fornire risposte adeguate a tutti i casi problematici è scontata. Non so quanto quella fiction sia specchio della realtà, ma se esiste una buona corrispondenza la diversità in meglio rispetto ai tribunali italiani (mi è capitato di frequentarne uno da cronista) e alla loro gelida atmosfera è abissale: attitudine alla concretezza, alla risoluzione rapida; affidamento frequente dei riconosciuti colpevoli a persone che se ne rendano responsabili, in alternativa al carcere.

    Particolarmente positiva mi sembra l’esistenza di una corte speciale, chiamata a giudicare gli imputati fuori di testa (non per forza “clinicamente pazzi”), per i quali la condanna alla prigione sarebbe inumana e insensata. Penso al rosario di suicidi, in Italia, spesso di persone che in carcere non dovevano proprio finire.

  2. Serena, in realtà se dici “melting pot” a un canadese, lo offendi. Loro si fanno gran vanto di essere andati oltre e di avere inventato la “mosaic society” nella quale ciascun individuo porta la tessera della sua cultura d’origine (heritage culture) e la mette di fianco a quella di tutti gli altri, nel rispetto della propria e di quelle altrui. La differenza, al di là della metafora, è che nel “melting pot” statunitense le culture vengono mescolate tutte, e si chiede un’uniformità o almeno una omogeneizzazione alla cultura indigena. Nel mosaico canadese, lo Stato tenta (per quanto possibile, vedi musulmani integralisti che vorrebbero l’infibulazione passata dalla mutua) di rispettare le usanze di ciascuna cultura senza forzare all’omogeneizzazione verso l’unità culturale canadese. Che, di base, è già bilingue (anglofona e francofona) per cui non ha problemi, per esempio, ad aprirsi ad altre lingue. Per altri versi, il Canada ricorda molto l’URSS (organizzazione sanitaria: migliore di quella USA ma peggiore di quella italiana, con il divieto delle strutture private!) ed è un buffo bilanciamento tra una confederazione di macro-regioni chiamate “province” e uno Stato piuttosto accentratore.

  3. serena

    Ora ricordo una delle rare vicende canadesi che hanno fatto notizia anche in Europa: il riconoscimento dei tribunali cristiani, islamici ed ebraici (forse solo in una regione-provincia) per la soluzione di vertenze legate al diritto di famiglia. Poi credo la cosa sia, fortunatamente, rientrata, dopo la battaglia guidata da un’immigrata iraniana.
    Se il mosaico è fatto di tessere che cristallizzano le tradizioni etniche, penso sia tutt’altro che “oltre”, più avanti del mischiotto culturale, intendendo quest’ultimo non come assorbimento in un’unica cultura di tutte le altre ma come contagio pluridirezionale. Negli Stati Usa con tanti latinos la lingua spagnola è moneta corrente, cibi e musica sudamericani sono già “tradizione” per tutti. E ho letto di scuole dell’infanzia cinesi, in aree statunitensi con forte immigrazione asiatica, frequentati anche da bambini autoctoni che imparano la lingua, e la usano tra loro per non farsi capire dai grandi 😉

    Il comunitarismo è nefando, uccide l’individualità, la possibilità di ciascuno di scegliere di essere, e fare, altro rispetto alle famiglie e alle etnie d’origine. Se no, viva il crocefisso nelle aule italiane, niente italiani che diventano buddisti o musulmani che si fanno agnostici. Una condanna soprattutto per donne e giovani, a parte le mutilazioni penso per esempio ai matrimoni combinati.

    In politica come si comportano gli immigrati, in Canada? Partecipano alla vita dei partiti esistenti o ne creano di propri?
    L’idea che, da noi, alle molteplici Democrazie Cristiane si aggiungano pure partiti islamici mi terrorizza, si andrebbe a una situazione libanese. Già in Alto Adige ci siamo vicini, con normative su istruzione, accesso alla casa, concorsi, candidature politiche ecc. giusto adeguati al Libano; impossibile dichiararsi “misti”, o altro che tedeschi, italiani o ladini.

  4. già che siamo in tema di canada e univesità, mi potresti spiegare meglio come funziona il sistema di valutazione dei professori nell’università di toronto? Avrei un certo progettino per l’università di padova…

  5. Ciao Vegetarian, il sistema di valutazione alla UofT è doppio: dall’alto e dal basso. A inizio anno si viene osservati insegnare (ti parlo di quando sei un dottorando al tuo primo TA) da una coppia di prof anziani che stilano una specie di report. Se ne hai bisogno, vieni spedito a un ufficio dove (trovi me e altri colleghi) che ti insegniamo a insegnare. Questo dunque è il controllo dall’alto. Poi al termine di ogni anno i tuoi studenti ti danno una pagella (anonima) che viene calcolata da un altro ufficio e messa in statistica. Più che il voto di media finale, è importantissima la progressione negli anni. Se sei bravo parti con una media diciamo del 6,5 su 10 e negli anni vai su. Se non sei portato, vai giù. Se non ti piace insegnare ma ti sforzi, rimani circa uguale. Al momento dell’assunzione (finito il dottorato) vieni selezionato dal comitato dell’università dove fai domanda sulla base anche di queste pagelle e di ciò che i tuoi supervisori han detto e scritto su di te. Poi fai una lezione magistrale, durante i tre giorni di colloquio, con tutto il comitato di prof tuoi giudicanti seduto in fondo all’aula a vedere come te la cavi. Sulla base di questa impressione e del tuo cv ti fanno la proposta di assunzione oppure no. Ogni anno, una volta assunto, devi produrre un tot e vieni sempre sottoposto al giudizio dal basso (gli studenti) ma non a quello dall’alto.

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